Onorevoli Colleghi! - È alta la polemica contro gli sprechi e i costi impropri della politica. Si susseguono le inchieste giornalistiche sulla stampa sia nazionale che locale. Si moltiplicano le notizie che destano nella pubblica opinione sconcerto e reazioni anche forti. Di fronte a questo, il ceto politico balbetta, nella evidente difficoltà di giustificare spese ingiustificabili o, ancora peggio, funzionali all'acquisizione e al consolidamento di consensi clientelari.
      Il tema non può essere ignorato quando è in corso di discussione un disegno di legge finanziaria particolarmente pesante. Si chiedono sacrifici pesanti a tutti. Si tagliano risorse agli apparati che svolgono funzioni fondamentali e primarie, come la sicurezza e la giustizia. Si discute di come trovare un giusto equilibro tra rigore e sviluppo. È un contesto che impone di garantire che le risorse pubbliche siano utilizzate al meglio, con rigore ed efficienza. Se non si opera con tempestività ed efficacia, si indebolisce la legittimazione di fronte all'opinione pubblica anzitutto della stessa legge finanziaria e, infine, della complessiva azione del Governo. Dunque, è indispensabile che a sprechi e a costi impropri si ponga mano, qui ed ora.
      Lo stesso disegno di legge finanziaria comprende alcune norme che guardano nella giusta direzione, e meritano per questo un apprezzamento positivo. Ma non sono sufficienti. Si presenta, allora, una proposta di legge che in modo più compiuto affronti il problema, con innovazioni che puntano a risparmi strutturali di spesa, e al tempo stesso tali da garantire che la cura dell'interesse pubblico prevalga sulla ricerca clientelare del consenso. Una proposta di legge che può contribuire a costruire il messaggio necessario a reggere

 

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la richiesta di sacrifici. Che dia il senso di un obiettivo di modernizzazione perseguito non solo attraverso i tagli e gli equilibri di bilancio, ma cercando pulizia amministrativa, efficienza e competitività di sistema. E che attraverso i risparmi conseguiti consenta di liberare risorse per il rilancio di obiettivi fondamentali dell'azione di governo come, ad esempio, l'università, la ricerca, le famiglie, le politiche sociali per giovani e per anziani.

Capo I.

      Si tocca anzitutto il punto del livello delle retribuzioni e degli emolumenti a carico di soggetti pubblici. Si propone l'introduzione di un tetto generale riferito alla retribuzione del primo presidente della Corte di cassazione. Tale scelta si giustifica soprattutto per calmierare un mercato del tutto fittizio, che è quello del management pubblico. Polemiche violente hanno investito i molti casi in cui ai manager pubblici sono stati riconosciuti emolumenti e benefit paragonabili - quando non superiori - ai corrispondenti livelli del settore privato. Ma questa realtà si fonda su un assunto che in pratica non esiste: che ci sia appunto un mercato comune della dirigenza pubblica e di quella privata.
      Se questo fosse vero, sarebbe del tutto comprensibile che al manager pubblico fosse corrisposto un livello retributivo adeguato a indurlo a scegliere il pubblico piuttosto che il privato. Ma qualunque azienda privata - a meno che non sia soggetta a insostenibili pressioni politiche - si guarderebbe bene dall'offrire posizioni a qualunque manager pubblico, salvo forse poche lodevoli eccezioni. Il management pubblico vive in un recinto protetto e opera su un percorso determinato non dalla capacità professionale o dai risultati conseguiti, ma dalle sponsorizzazioni politiche. E il manager pubblico che lascia l'incarico normalmente passa ad un'altra posizione di management pubblico, senza che abbia alcun rilievo la prova concretamente offerta sul campo.
      Ancora nel capo I si propone un tetto al numero dei componenti del consiglio di amministrazione nelle società a totale o prevalente partecipazione pubblica. Tale numero, infatti, viene in genere determinato non da una equilibrata considerazione delle esigenze della società che si costituisce ma, piuttosto, l'elemento determinante è la necessità di distribuire i posti disponibili tra gli sponsor politici in modo tale da acquisire il consenso necessario alla costituzione della società. In tale modo si determina non solo una inevitabile moltiplicazione dei costi di funzionamento, ma si apre la strada all'utilizzazione della forma della società di diritto privato non per fini di efficienza dell'azione politico-amministrativa, ma per soddisfare le pressioni clientelari, che montano in diretta correlazione alla crescente frammentazione del quadro politico, che di questi strumenti clientelari a sua volta si alimenta.
      Si propone, ancora, il divieto di norme che pongono a carico delle amministrazioni i costi per gli eventuali errori compiuti dagli amministratori e il ripristino della responsabilità per colpa lieve davanti alla Corte dei conti. Le polemiche sorte all'epoca della soppressione, con la legge n. 20 del 1994, di tale forma di responsabilità probabilmente avevano fondamento. Questa norma, unitamente alla rimozione dei limiti e dei controlli sulle attività delle pubbliche amministrazioni, di certo ha favorito lo smarrimento crescente nell'azione politico-amministrativa dei necessari criteri di rigore e di correttezza.
      Infine, si segnala nel capo I la proposta cessazione della partecipazione statale a Sviluppo Italia Spa. Troviamo forse qui uno dei casi più eclatanti di spreco di denaro pubblico, anche attraverso il moltiplicarsi delle società controllate e partecipate. Il fallimento della missione originaria è evidente. Nessuno degli obiettivi che si volevano raggiungere si mostra pienamente realizzato, nonostante l'impegno di ingenti risorse pubbliche. Al tempo stesso, è indiscutibile la torsione clientelare determinatasi nel tempo, ed evidenziata anche da ultimo in una incisiva inchiesta giornalistica. La fine della partecipazione dello Stato assume il senso di

 

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un messaggio fortemente simbolico, e segnala al tempo stesso la necessità di cambiare rotta per sostenere lo sviluppo, in particolare nelle aree economicamente svantaggiate del nostro Paese.

Capo II.

      La polemica contro il disegno di legge finanziaria da parte degli amministratori regionali e locali è stata particolarmente accesa. Ben si comprende, in specie perché il potersi trovare nella necessità di aumentare la pressione tributaria locale non può certo essere una prospettiva gradita a chi amministra. Ma un dato emerge: ormai da tempo il sistema delle autonomie è anch'esso investito dalle polemiche sui costi eccessivi e sugli sprechi della politica. Le inchieste sulla stampa e sugli altri mezzi di comunicazione nazionali e locali si sono susseguite. A fronte di questo non è emerso alcun significativo ed efficace impegno volto a riportare ordine, rigore e correttezza nell'azione politico-amministrativa. E colpisce che un siffatto impegno non si sia minimamente accompagnato nemmeno alla forte protesta per il disegno di legge finanziaria. Se ciò fosse accaduto, non è dubbio che la protesta stessa sarebbe stata ben più credibile.
      Si avanzano dunque proposte su due punti emblematici dello spreco di risorse pubbliche in sede regionale e locale: il proliferare delle società miste e la presenza nei Paesi esteri.
      Quanto al primo punto, il modello della società per azioni può apparire come una forma moderna ed efficace di rapporto tra pubblico e privato. Ma di per sé ciò non basterebbe a spiegare la straordinaria fortuna che negli ultimi anni le società miste hanno segnato, soprattutto nell'ambito del governo regionale e locale. Successo che invece si comprende appieno considerando che dall'utile apporto delle risorse e del know-how dei privati all'esercizio di funzioni pubbliche, si passa ad una forma sofisticata di gestione clientelare del consenso. Assumiamo in ipotesi che l'ente potrebbe provvedere alla cura dell'interesse pubblico attraverso la sua organizzazione e i suoi uffici, eventualmente ricorrendo al mercato per quanto necessario attraverso normali meccanismi di gara. Istituire, invece, una società mista ad hoc per un verso implica una utilizzazione meno efficiente delle risorse, perché una parte di quelle disponibili vengono dirottate sui costi della struttura da istituire; per un altro verso, e soprattutto, porta nell'ambito dell'influenza politica posizioni negli organi di governo della società e posti di lavoro. Al tempo stesso, si riducono la visibilità, la trasparenza e il controllo sull'uso delle risorse. Ed è così che partendo da una apparentemente ineccepibile applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale si giunge alla degenerazione clientelare dell'azione politico-amministrativa. Con il vantaggio che si tratta di una fisarmonica estensibile quasi all'infinito. Nulla impedisce di inventare all'occorrenza una nuova società, quando si tratta di placare le tensioni di una coalizione troppo frammentata e rissosa. E dunque con le risorse pubbliche si apre la via alla creazione di corpose clientele personali in capo a chi è titolare di un potere politico-amministrativo, o comunque è in grado di incidere sull'esercizio di quel potere.
      Dunque, si propongono regole per circoscrivere la possibilità di istituzione di società miste ai casi in cui esse siano strumentali alle attività dell'ente e strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali. Potrebbe sembrare una formulazione di principio facilmente eludibile, ma la norma va letta insieme alla ridefinizione della responsabilità davanti alla Corte dei conti fino ad includere nuovamente la colpa lieve, esclusa dalla citata legge di riforma n. 20 del 1994. Si può pensare che una più rigorosa formulazione normativa, e una parallela più incisiva forma di responsabilità giustiziabile, producano in ultima analisi un effetto positivo.
      Con riguardo a regioni ed enti locali si tocca poi la questione del turismo istituzionale e delle rappresentanze all'estero, che pure ha dato luogo a dure polemiche. I dati disponibili giustificano la conclusione

 

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che, con poche eccezioni, sia una iniziativa di alto costo e di basso o nullo rendimento, sostanzialmente utile - al più - alla visibilità di questo o di quel leader. Di certo, tali iniziative non si mostrano idonee ad incidere in modo significativo sulle prospettive di crescita e di sviluppo della comunità amministrata. E non sembra un caso che l'attivismo di regioni ed enti locali italiani all'estero non trovi particolare riscontro nell'esperienza di altri Paesi. Mentre sono indiscutibili le difficoltà della nostra bilancia commerciale e l'indebolimento della nostra capacità competitiva in settori portanti quali, ad esempio, il turismo. Questo dimostra che sono necessarie politiche forti di livello nazionale per la promozione del «marchio Italia». E dimostra anche come tali politiche non possano essere utilmente sostituite da un attivismo localistico, che sposta la competizione fra territori nel nostro Paese, piuttosto che collocarla utilmente tra l'Italia e gli altri Paesi che con noi competono in uno scenario globalizzato.
      Si prevedono dunque due disposizioni, rese necessarie dalla diversa posizione costituzionale degli enti locali e delle regioni. Mentre per i primi la legge dello Stato può direttamente - e lo si prevede con l'articolo 8 della presente proposta - introdurre una disciplina cogente, per le seconde il filtro dato dall'autonomia costituzionale rende necessario che si formuli - e lo si prevede con l'articolo 9 - una norma di principio incardinata sul coordinamento della finanza pubblica, attribuita alla potestà legislativa concorrente.
      Infine, con l'articolo 10, si prevede la soppressione della nomina regionale dei consiglieri della Corte dei conti ai sensi dell'articolo 7, comma 9, della legge n. 131 del 2003. Oltre a consentire un risparmio di spesa, si supera in tale modo l'ambigua commistione di controlli e controllati che la legge vigente determina.

Capo III.

      Con l'articolo 11 e seguenti della presente proposta di legge si prevede la soppressione di varie strutture, il cui costo elevato non corrisponde ad un utile pubblico significativo. Si tratta di strutture riconducibili al modello dell'autorità indipendente, o comunque connotate da un elemento di forte autonomia rispetto all'esecutivo.
      La separatezza rispetto al potere esecutivo, peraltro, nella forma rafforzata dell'autorità indipendente in senso stretto, o in forma più debole, si giustifica non per un generico rilievo delle funzioni svolte, ma per il fatto che si tratti di settori da sottrarre alla diretta influenza del decisore politico. Settori, quindi, politicamente sensibili, che è bene porre in una condizione di insularità rispetto agli equilibri politici contingenti. Settori che richiedono una regolazione sorretta da un sapere eminentemente tecnico.
      Le strutture di cui si prevede la soppressione per una parte non segnalano le indicate esigenze. Tale è il caso, ad esempio, del Centro nazionale per l'informatica nella pubblica amministrazione (CNIPA), della Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP), o della Commissione per l'accesso agli atti amministrativi. Nei primi due casi, le funzioni svolte possono utilmente essere riportate alle strutture ordinarie. Questo è evidente per il coordinamento dello sviluppo informatico delle pubbliche amministrazioni, ma anche per la COVIP non sembra dubbio che un'efficace funzione di vigilanza possa essere svolta dalle strutture ministeriali, non risultando evidente alcun particolare rischio di indebita influenza da parte dell'Esecutivo. Lo stesso può dirsi per l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, per cui le esigenze di vigilanza in senso proprio possono ben essere svolte dalle ordinarie strutture e la domanda di legalità in senso stretto deve rimanere affidata alla magistratura. Quanto alla citata Commissione per l'accesso, è evidente che la tutela della trasparenza non si può utilmente garantire in modo centralizzato da parte di un organo indipendente. Se mai, va favorita una tutela diffusa, assicurando celerità all'intervento del giudice amministrativo in

 

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sede locale. Infine, quanto alla citata Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, l'esigenza non è quella di garantire autonomia rispetto all'esecutivo.
      Per un'altra parte, invece, si propone di sopprimere alcune strutture per le quali trova fondamento la scelta del modello dell'autorità indipendente, ma che nell'esperienza concreta non hanno risposto alle esigenze. Cosi è per l'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo (ISVAP) e per l'Autorità per l'energia elettrica e il gas.
      Nel primo caso, siamo probabilmente di fronte a quello che gli studiosi definiscono «cattura dei controllante da parte degli interessi controllati»: pericolo sempre presente nell'esperienza delle autorità indipendenti, che nella specie trova riscontro nella comune esperienza dell'incapacità dell'ISVAP di tutelare gli interessi dell'utenza ad avere tariffe ragionevoli per le assicurazioni nel settore automobilistico. Non sono mancate, come è noto, accuse del formarsi di veri e propri cartelli da parte delle società del settore e la questione è stata oggetto anche di una consistente attività ispettiva in sede parlamentare.
      Quanto all'Autorità per l'energia elettrica e il gas, si rileva che il problema nel sistema italiano non è tanto la definizione della giusta tariffa per l'utenza, poiché gli elementi di costo sono largamente determinati dagli scenari internazionali del costo del petrolio, del tutto al di fuori di una possibilità di regolazione in sede nazionale, ovvero anche da scelte di fondo che non sono alla portata dell'autorità, come la diversificazione delle fonti, o l'incentivazione delle fonti rinnovabili. Si coglie, piuttosto, che in un contesto così disegnato l'intervento veramente utile è nella verifica di tutte le aperture possibili alla concorrenza nel mercato interno.
      Ed allora, sia per l'ISVAP che per l'Autorità, si mostrano utili la soppressione e il contestuale trasferimento delle relative funzioni all'Autorità garante della concorrenza e del mercato. Oltre ad evitare superfetazioni e duplicazioni, con il conseguente inevitabile aumento dei costi, si perviene in tale modo alla tutela più efficace degli interessi concretamente rilevanti e suscettibili di concreta risposta.

Capo IV.

      Si prevede conclusivamente, di modificare le norme sul finanziamento pubblico dei movimenti o partiti politici, riducendo l'ambito dei soggetti politici aventi diritto e ripristinando il collegamento con i voti espressi piuttosto che con gli elettori, come da ultimo stabilito dalla legge vigente. Inoltre, si collega il finanziamento all'adozione di una legge generale di disciplina dei movimenti o partiti politici in attuazione dell'articolo 49 della Costituzione. Legge ormai urgente per riportare nel sistema politico le condizioni minime indispensabili di trasparenza e di partecipazione democratica, la cui mancanza favorisce in misura decisiva le degenerazioni alla base dell'abnorme crescita dei costi della politica.

 

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